Eventi e cultura
Vito Calabrese: "Portare la vita in salvo" è un lavoro sul dolore che rende liberi
Presenti i compagni di Antonio Summo, vittima del disastro ferroviario.
Ruvo - giovedì 3 novembre 2016
9.09
Vito Calabrese non è quello che uno si immagina. Psicologo, uomo che ha letto tantissimo e non lo nasconde, uomo che continua a lavorare come psicologo. E' questo ma è anche l'uomo che ha perso sua moglie il 4 settembre di tre anni fa, perché gliel'anno ammazzata. Hanno ucciso sua moglie, Paola Labriola, madre di tre figli, sul luogo di lavoro. Con un coltello, un paziente, nel quartiere Libertà di Bari.
Lo scenario in cui siamo, a palazzo Caputi, è fin troppo ricco. La sala conferenze pienissima, i giovanissimi musicisti dell'Apulia's musicainsieme guidati dal maestro Pino Caldarola, Elvira Zaccagnini editrice, Vincenza Fiore psicologa e amica. Forse troppe cose in un contesto in cui si ha necessità di ascoltare il testimone diretto, la vittima vera di un crimine tanto efferato. Calabrese non è quello che ci si aspetta. Non utilizza parole ricercate, non scende nei tecnicismi, non appare nemmeno un marito affranto e distrutto dal dolore. Siede tranquillo di fronte a questa platea accorata, guarda. Lascia molto la parola alla sua collega Vinci, e quando parla trasmette serenità, gioia, tranquillità. Non è quello che uno si aspetta da un uomo reso vedovo da una violenza inconcepibile, né tanto meno appare come un deus ex machina, che voglia dispensare dottrine e consigli su come si affronta un dolore. Vito Calabrese è un uomo. E in quanto tale si presenta qui, a Ruvo di Puglia, con il cuore aperto, privo di armi difensive.
E credo sia questo il segreto. Paolo Cabello che legge le pagine del suo libro racconta di una tragedia. L'ansia di Vito che viene portato sulla scena del delitto; una scena piena di patos. Ci si commuove, si ha paura, e quasi si spera che la storia possa cambiare... dai dimmi che la trova viva, dai ti prego dimmi che ce la fa a darle l'ultimo saluto. Ovviamente no. Lo sappiamo com'è andata. Non è un romanzo, è la vita vera.
Ma non è di questo che si parla. Non è di Paola. Non di Vito, non è dei suoi figli. Questo è un percorso di dolore e parla di chi resta.
Come affrontiamo, noi che restiamo da questa parte, il dolore di una perdita? Come ci lavoriamo sopra? Come facciamo ad andare avanti? Quello che Calabrese racconta è emblematico: «E' come se fossi sdoppiato. Appresa la notizia ho visto me stesso allontanarsi dall'io coscente e affrontare i primi attimi di questa tragedia. Quasi con distacco ho guardato me stesso disperarmi, affrontare l'emergenza, correre contro il tempo affinché i miei figli sapessero la notizia da me invece che dai media.»
Eccolo, l'uomo. Un dolore così disperato da avere la necessità di ricorrere ad un altro se stesso. Ad uno sdoppiamento. E non si parla di perdono. Vito lo ammette: non perdonerò mai l'assassino di mia moglie. Il segreto è nella memoria. La storia di Paola è una tragedia che coinvolge una comunità. Femminicidio, morte sul lavoro. Sono cose che scuotono una città come Bari, in cui Paola era conosciuta, apprezzata e amata.
« Ci siano sentiti tutti vulnerabili. Tutto ciò che diamo per scontato, che sono i nostri punti di riferimento ad un tratto vengono meno. Le certezze vengono lacerate. La sofferenza è insostenibile: non c'è scudo nemmeno nel posto di lavoro» racconta Vincenza Fiore, collega di Paola e Vito.
Quello che non si deve fare, è rimanere soli. Siamo animali sociali. Siamo uomini che hanno bisogno di vivere con altri uomini. La solitudine è una bestia da rifuggere. Dobbiamo evitarla a tutti i costi. E quello che serve davvero è la memoria, per far rivivere chi amiamo ancora e ancora. «Non trovo scontati o stupidi o privi di signifcato i gesti di solidarietà, i tentativi di portare alla memoria collettiva i fatti accaduti» racconta Calabrese. «Dobbiamo ricordare. Ci fa bene. Questo libro non è quello che io avrei mai pensato di poter scrivere. Ma è stato terapeutico. E' nato sotto la spinta di chi credeva in me, chi mi conosceva bene e che sapeva che era un gesto, quello di scrivere, che mi avrebbe aiutato.»
Lo sforzo di cui parla il libro è essenzialmente questo: trovare un motivo per restare. Nella ricerca di trovare un punto che ricongiunga la vita privata con la comunità, perché il dovere di chi resta è questo: mantenere la vita viva!
Lo scenario in cui siamo, a palazzo Caputi, è fin troppo ricco. La sala conferenze pienissima, i giovanissimi musicisti dell'Apulia's musicainsieme guidati dal maestro Pino Caldarola, Elvira Zaccagnini editrice, Vincenza Fiore psicologa e amica. Forse troppe cose in un contesto in cui si ha necessità di ascoltare il testimone diretto, la vittima vera di un crimine tanto efferato. Calabrese non è quello che ci si aspetta. Non utilizza parole ricercate, non scende nei tecnicismi, non appare nemmeno un marito affranto e distrutto dal dolore. Siede tranquillo di fronte a questa platea accorata, guarda. Lascia molto la parola alla sua collega Vinci, e quando parla trasmette serenità, gioia, tranquillità. Non è quello che uno si aspetta da un uomo reso vedovo da una violenza inconcepibile, né tanto meno appare come un deus ex machina, che voglia dispensare dottrine e consigli su come si affronta un dolore. Vito Calabrese è un uomo. E in quanto tale si presenta qui, a Ruvo di Puglia, con il cuore aperto, privo di armi difensive.
E credo sia questo il segreto. Paolo Cabello che legge le pagine del suo libro racconta di una tragedia. L'ansia di Vito che viene portato sulla scena del delitto; una scena piena di patos. Ci si commuove, si ha paura, e quasi si spera che la storia possa cambiare... dai dimmi che la trova viva, dai ti prego dimmi che ce la fa a darle l'ultimo saluto. Ovviamente no. Lo sappiamo com'è andata. Non è un romanzo, è la vita vera.
Ma non è di questo che si parla. Non è di Paola. Non di Vito, non è dei suoi figli. Questo è un percorso di dolore e parla di chi resta.
Come affrontiamo, noi che restiamo da questa parte, il dolore di una perdita? Come ci lavoriamo sopra? Come facciamo ad andare avanti? Quello che Calabrese racconta è emblematico: «E' come se fossi sdoppiato. Appresa la notizia ho visto me stesso allontanarsi dall'io coscente e affrontare i primi attimi di questa tragedia. Quasi con distacco ho guardato me stesso disperarmi, affrontare l'emergenza, correre contro il tempo affinché i miei figli sapessero la notizia da me invece che dai media.»
Eccolo, l'uomo. Un dolore così disperato da avere la necessità di ricorrere ad un altro se stesso. Ad uno sdoppiamento. E non si parla di perdono. Vito lo ammette: non perdonerò mai l'assassino di mia moglie. Il segreto è nella memoria. La storia di Paola è una tragedia che coinvolge una comunità. Femminicidio, morte sul lavoro. Sono cose che scuotono una città come Bari, in cui Paola era conosciuta, apprezzata e amata.
« Ci siano sentiti tutti vulnerabili. Tutto ciò che diamo per scontato, che sono i nostri punti di riferimento ad un tratto vengono meno. Le certezze vengono lacerate. La sofferenza è insostenibile: non c'è scudo nemmeno nel posto di lavoro» racconta Vincenza Fiore, collega di Paola e Vito.
Quello che non si deve fare, è rimanere soli. Siamo animali sociali. Siamo uomini che hanno bisogno di vivere con altri uomini. La solitudine è una bestia da rifuggere. Dobbiamo evitarla a tutti i costi. E quello che serve davvero è la memoria, per far rivivere chi amiamo ancora e ancora. «Non trovo scontati o stupidi o privi di signifcato i gesti di solidarietà, i tentativi di portare alla memoria collettiva i fatti accaduti» racconta Calabrese. «Dobbiamo ricordare. Ci fa bene. Questo libro non è quello che io avrei mai pensato di poter scrivere. Ma è stato terapeutico. E' nato sotto la spinta di chi credeva in me, chi mi conosceva bene e che sapeva che era un gesto, quello di scrivere, che mi avrebbe aiutato.»
Lo sforzo di cui parla il libro è essenzialmente questo: trovare un motivo per restare. Nella ricerca di trovare un punto che ricongiunga la vita privata con la comunità, perché il dovere di chi resta è questo: mantenere la vita viva!